Le foto
11 settembre 2020: Casteldarne - Abbazia Novacella

L’Abbazia di Novacella è sia meta della tappa odierna sia destinazione ultima del nostro pellegrinaggio. Come già descritto il tracciato del cammino è immerso in prati e boschi. Si articola su pedonabili, piste ciclabili, sterrati, sentieri. Spesso costeggia il fiume lasciandolo ora a sinistra ora a destra rispetto al verso di marcia. L’attraversamento dell’ormai familiare via d’acqua è chiaramente su ponti; una citazione particolare la merita il passaggio sul ponte di legno sospeso, sopra le turbolente acque, con rassicuranti cavi d’acciaio. Poco oltre una ex costruzione fortificata, ma ora diroccata della passata dogana asburgica con la funzione di sbarramento difensivo, chiudendo la val Pusteria ad Ovest in prossimità della confluenza della Rienza nell’Isarco. Può apparire come una litania però anche in questa mattinata prima della già programmata sosta a Rio di Pusteria, nell’attraversare paesi e pugni di case chiaramente ci “imbattiamo” e non per caso in tante chiese. Sono in prevalenza a tinta bianca esterna e mostrano una architettura simile: uno svettante campanile di fianco al corpo principale della struttura. Ognuna ha all’interno interessanti oggetti, affreschi, quadri, raffigurazioni. Alcune di queste conservano segni o sono dedicate a San Giacomo e ciò è indice di trovarsi proprio su uno di quegli antichi sentieri di pellegrinaggio verso il padre di tutti i cammini. Salto l’approfondimento perché la scorpacciata dei tanti luoghi di culto è tale che, in questo momento di rielaborazione scritta, i ricordi e riferimenti vaghino in un completo caos associativo. Finalmente Rio di Pusteria. Risaliamo il paese. In periferia lasciamo alla nostra destra la stazione ferroviaria, quella degli autobus e la stazione della funivia. La cabina della funivia salendo agli altipiani di Maranza sembra sfiorare le punte degli alti abeti, ha l’aspetto di un ragno mentre tesse il suo filo. Passo dopo passo venti chilometri sono già in bacheca quando le suole delle scarpe calpestano il selciato della piazzetta del Municipio di Rio di Pusteria, paese terrazza tra la Rienza e il Rio Valles. Tra gli edifici che la circondano noto due hotel, l’immancabile chiesa con il classico campanile a punta, e sul lato opposto il palazzo Comunale o Rathaus. Un arredo interessante dello slargo è la presenza di una fontana per un piacevole rinfrescarsi e ricarica delle borracce. Bando agli indugi. In un batter di ciglia ci “sbrachiamo” intorno ad un tavolo baciato da una invitante ombra. Il ristorante Weisse Lilie dell’omonimo Hotel lì presente si guadagna un elevato indice di gradimento mentre arrotoliamo, non proprio signorilmente, spaghetti alla bolognese. L’orologio del campanile lascia cadere alcuni rintocchi scuotendo il nostro torpore. È tempo di riprendere la marcia per l’ultimo balzo conclusivo del pellegrinaggio. Prima di lasciare l’ameno luogo, un salto alla scoperta dell’interno della chiesa Mühlbach. Con mio piacere e meraviglia mi soffermo a leggere un cartello a lato del cancello d’ingresso al piccolo cortile che immette all’interno dell’edificio religioso. Testualmente recita:
“Le radici della fede di Papa Benedetto XVI sono da ricercare in questa chiesa:...”
Infatti qui si è sposata la bis-nonna a metà dell’ottocento e qui poi ha fatto battezzare i suoi otto figli; qui è stata registrata la nascita della mamma del Papa l’8.1.1884. La mamma diventa sposa Ratzinger nel 1920.
Un facile quesito per il lettore: la suddetta chiesa è a circa 750 metri s.l.m., l’Abbazia di Novacella è giù nella valle sita ad una quota intorno ai 550 metri s.l.m.: il pellegrino dovrà risalire o scendere il sentiero? Suggerimento: non fidarsi delle semplici apparenze. Uscendo dal paese la direzione è quella di una strada asfaltata, ma per fortuna con traffico assente, che risale la montagna alle spalle del borgo. Con onestà affermo che tale fatica inaspettata è ben accolta dal gruppo pellegrino nel momento in cui la strada sempre più panoramica raggiunge un belvedere. È veramente una vista magnifica. Si scorge la valle dell’Isarco verso Sud che incontra quella di Pusteria ad Ovest proprio a Rio di Pusteria. La catena delle montagne più vicine gira tutto intorno alla guisa di anfiteatro, mentre in lontananza (Nord-Ovest) svettano le cime dell’arco alpino. Oh! desiderata discesa, dove eri nascosta? donati gentile ai veloci piedi pellegrini. Licenza poetica preludio ad un rapido avvicinamento alla meta. All’uscita dall’ennesima selva, a malincuore perché non più “nel mezzo del cammin di nostra vita”, arriviamo ad un trivio. Il nostro sentiero oltre ad altri due. I cartelli segnaletici dei due recitano: sentiero delle mele l’uno, sentiero dell’uva l’altro. Ad onor di cronaca abbiamo già percorso nella precedente tappa il tratto del “sentiero dei diritti”. Le due deviazioni insinuano un dubbio: assecondare o meno l’invito? In un immaginario collettivo le due insegne hanno per noi pellegrini il fascino di due leggiadre ancelle: una con cesto di mele stretto tra braccio e vita, l’altra stringe in mano grappoli d’uva di grossi e luccicanti chicchi. Noi, “ortodossi” pellegrini, resistiamo però alle ammalianti lusinghe senza la necessità di ricorrere a catene o corde di “coercizione mentale” (rif. Ulisse). Via, via, avanti diritti per la nostra strada. Al gomito di un’ampia, morbida curva a sinistra si spalanca allo sguardo, giù verso basso, la valle dell’Isarco. In lontananza la città di Bressanone con in risalto la bellissima facciata frontale del Duomo di Santa Maria Assunta che ci guarda pronta ad accoglierci ... non oggi, ma domani. L’Abbazia di Novacella è in corrispondenza alla nostra posizione ma ad una quota inferiore per, all’incirca, un centinaio di metri di dislivello. Praticamente è a un tiro dalla gittata di lancio di un sasso. Tutto il versante dell’alta collina tra noi e l’Abbazia è coperto da quattro/cinque terrazzamenti adibiti a vigneti. Per raggiungerla il sentiero pellegrino compie un ampio giro di aggiramento fino a portarsi alle prime case dell’omonima frazione del monastero per poi fare dietro front. Orlando contrariato dal giro vizioso proposto elabora una propria via dell’uva. Scavalcare il basso muretto delimitatore del presente sentiero; gettarsi sullo scosceso spazio che interrompe la continuità della vigna a destra con quella di sinistra del primo terrazzamento. Quindi, saltare dal terrazzo alto circa due metri, e procedere poi allo stesso modo per i terrazzamenti rimanenti. Eventualmente in mancanza di varchi tra vigne affiancate strisciare pancia a terra sotto i filari. Quindi attraversare i cortili di due abitazioni private. Poi arrampicarsi sul muro di cinta dell’abbazia ed infine, con un agile balzo, catapultarsi all’interno del fortilizio monastico. Con mia meraviglia, il disappunto di Orlando e l’indifferenza di Francesco, Arcangelo forse colpito da un invisibile lampo di saggezza sconsiglia di abbracciare “la Orlandina via dell’uva”. Nell’ultimo rettilineo prima dell’arco d’ingresso al Monastero, alla nostra sinistra filari di viti e a destra quelli di un meleto rendono onore, non delle armi, alle nostre gambe pellegrine. Finalmente siamo nel cortile centrale interno all’Abbazia. Il pellegrinaggio è concluso ma non lo spirito pellegrino. È un attimo e già i due compagni di cammino Arcangelo e Francesco corrono freneticamente di qua e di là, su e giù, come nel gioco dei quattro cantoni scattando e scattando foto. Non possiamo però fregiarci di un tour culturale negli spazi della biblioteca, custode di novantotto mila volumi, poiché siamo ben oltre l’orario di chiusura. Ancora una volta non cediamo ad una ulteriore tentazione. Quella di “Bacco” che ci spingerebbe per un assaggio di vini nell’invitante cantina affacciata sul cortile d’ingresso. Nel cortile più interno della fortificazione troneggia la chiesa dell’Abbazia. In un angolo esterno alla chiesa, di fianco al sagrato ma separato da una recinzione, il camposanto dove riposano i “fratelli” del monastero. La tumulazione è a terra; le croci sono tutte di identica fattura su cumuli di terra mossa: giacigli di cespugli composti da piccole foglie tutte ben ordinate; sarà un paradosso ma sa di bello! Non rimane che entrare nella chiesa abbaziale ricca di elementi barocchi. Fondata dal Beato Vescovo ... intorno al mille e cento, e successivamente fortificata per paura dell’invasione turca. Purtroppo la massiccia cancellata che separa il vestibolo dalla Navata è già serrata impedendoci il devoto passo al suo interno. Come al solito il tempo è tiranno. Gambe in spalla e via alla fermata dell’autobus, da prendere al volo, per tornare all’albergo di Casteldarne come se fosse un rincasare. Al Gasthof Obermaier brindiamo, con un meritato boccale di birra, a noi pellegrini un po’ turigrini. La giornata volge al termine. Il diario del giorno non è però ancora concluso. Difatti due episodi “di una certa rilevanza” meritano di essere menzionati. Il primo è un giallo teatrale, di tinta molto sbiadita, ovvero di facile soluzione. Prima della cena Arcangelo è in camera con Luisa. Ad un certo momento, non ricordo il preciso contesto, il pellegrino chiede alla consorte se ha visto le sue ciabatte; per la cronaca non importa se di mare, di piscina, con infradito, di pezza o di gomma … Chiaramente la risposta è un secco no. Spazientirsi è un attimo. In mancanza di piatti i suddetti coniugi si abbandonano ad un diverbio serrato ma sottovoce poiché, in fin dei conti, sono in un albergo. In breve la semplice soluzione del giallo: Arcangelo fa cadere l’occhio, da recepire come sguardo e non come organo fisico, sui suoi piedi … ed ecco sciolto l’enigma. Da lì a breve, dopo la cena sempre buona che a forza di buona buona buona è ormai buonissima, il secondo episodio: un giallo carico di adrenalina, dalla soluzione complicata alla “Hercule Poirot”. La proposta quasi unanime è di riprendersi dalle fatiche del giorno ma soprattutto della cena con due passi all’aria aperta. Tale scelta non entusiasma Orlando, mio compagno di camera per cui mi chiede la chiave della stessa e così rispondo: “sei stato l’ultimo a lasciarla quindi devi rivolgere l’interrogativo a te stesso”. Bene! accomodati ad uno dei tavoli all’esterno della struttura alberghiera, aspettiamo a lungo Orlando. Deduciamo, non vedendolo tornare, che abbia ceduto al richiamo del giaciglio. Allora con passo lento io, Arcangelo e Francesco confortati dall’invitante serata ci dirigiamo verso il punto più alto di Cateldarne. Costeggiamo e ammiriamo il già menzionato castello che si mostra ancor più bello nella sua sobrietà. Continuiamo l’ascesa fino alla immancabile chiesa alla sommità del monte. Bello è dilungarsi a guardare le stelle nel loro intenso brillare. Bella è la soddisfazione per l’individuazione delle poche costellazioni a noi note. Sazi della scorpacciata di tranquillità ritorniamo, sempre con passo lento, all’albergo. Nella stube con una certa sorpresa vediamo Orlando, oltre a Luisa e la Iole. Le appartenenti al gentil sesso sono sedute attorno ad un tavolo e giudico impegnate in una conversazione dall’accademico alle reminiscenze. Il mite Orlando è preda di un ansiogeno movimento. Due passi avanti, due passi indietro da ripetere e ancora ripetere. Non trova il “grimaldello” della camera. Più che la rinuncia al giaciglio è preoccupato per l’imbarazzante inconveniente che si è venuto a creare. A nulla valgono le parole di comprensiva rassicurazione delle due signore. Lui ha cercato in tutti gli angoli senza nessun risultato. Chiaramente questo è un intrigo e soltanto il caso, come spesso accade nei thriller, ne può permettere la soluzione. Difatti, a conferma della casualità, mentre percorrevamo la strada di ritorno, per caso infilo una mano nella tasca della mia felpa. Ad essere sincero è un gesto che eseguo raramente. Appena estratta avverto un peso sul palmo: è la chiave della camera. Qual è il significato antropologico dei due episodi? Nulla di strano! Sono gli usuali effetti dovuti ad un eccessivo accumulo di tossine in soggetti “giovani anziani”. Buonanotte.