Quarto Giorno
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18 luglio 2014

3a tappa: St Jean Pied de Port–Aurizberri 32 km

“Si racconta che il principe di Condé dormì profondamente la notte avanti la giornata di Rocroi: ma, in primo luogo, era molto affaticato; secondariamente aveva già date tutte le disposizioni necessarie, e stabilito ciò che dovesse fare, la mattina» (A. Manzoni)

Allo stesso modo si può dire che i pellegrini dormirono profondamente la notte prima della dura battaglia che li attendeva. Solo per uno è la notte dell'invidia verso chi riposa tranquillamente; duro è lo sforzo per sostituire tale peccato con la virtù della pazienza. Sveglia alle 6.00, al primo barlume di chiarore, uno sguardo alla strada dalla finestra della camera e già giovani pellegrini con temeraria fretta si dirigono verso la porta di Spagna. Per noi, con meno spavalderia, la foto di rito dalla porta aperta nel muro di cinta che si apre sulla strada che punta verso il gran premio della montagna; è il “Tourmalet” del pellegrino. Nel silenzio mattutino, rotto solo da flebili bisbigli, un popolo si mette in marcia. La pendenza della strada è sempre più ardita e per vari tratti sicuramente è al di sopra del 20/25 %. Due longilinei finlandesi stanno già involandosi, koreani in calzamaglia vanno su con leggerezza, un attempato tedesco si accoda a noi, due giovani ragazze (sui vent’anni) canadesi vestite di nero, una magrolina e l'altra ben piazzata, suscitano in noi un sentimento di sofferenza per i loro piedi che calzano ridicole scarpe da ballerina. Diversi pellegrini ci superano ed allora coniamo, per rincuorarci, il nostro motto di battaglia: “tanto vi riprendiamo!”; in effetti così si verificherà fino alla nostra meta di Pamplona; il passista alla lunga supera sempre il velocista.
Una pesante cappa nebbiosa limita la visibilità a pochi metri impedendo di vedere l'inerpicarsi della strada fino all'ultimo rifugio utile prima di Rocisvalle, posto dopo circa otto km di puro sforzo, senza possibilità di rifiatare. La sudorazione è al di là dell'umano, più che di gocce di sudore è appropriato parlare di vene d'acqua che scorrono sulla “roccia”.
Nonostante ciò bello è l'andare, soprattutto quando all'improvviso si materializza a pochi metri dagli occhi la sagoma del “buon” rifugio. Quì ci imbattiamo in un ragazzo italiano, dall'aspetto ascetico, di Ravenna, che studia a Padova, in cammino con due ragazze, una bergamasca e l'altra quasi romana, conosciute un giorno prima sul taxi collettivo nel tragitto Lourdes-St Jean Pied de Port. Sorprendentemente non dobbiamo dire che siamo di Roma perché lui è stato ospite a Rapagnano di un suo compagno di studi; per premio lo invitiamo a mettersi in posa con noi per una foto di gruppo. Mai rifugio fu così preso d'assalto. All'esterno una fontana, che fa brillare gli occhi, vicino ad un belvedere (non oggi) per gettare lo sguardo verso valle. Il chiuso del ristoro offre un riparo provvidenziale dalla nebbia che cade a gocce; si mangia, si beve qualcosa di caldo, ci si cambia maglietta e canotta, ora pesanti come mattoni, sostituendoli con indumenti asciutti, beneficiando così di un rinnovato vigore fisico. Come direbbe un nostro ex pellegrino e guida di escursioni montane (sin dai tempi sabaudi!!): “avanti Savoia”. Prima della vetta ancora seicento metri di dislivello da mettere sotto i piedi. Da lì a poco si esce dal mare di nebbia e a 360° appaiono le cime della catena pirenaica, illuminata dal sole, sferzata da un robusto vento che tende a farci sbandare nonostante il peso dello zaino in spalla. Tutto intorno prati con al pascolo mucche, pecore, capre, cavalli sparsi qua e là in un via vai di pastori baschi che a bordo di auto si muovono da una zona all'altra in un dedalo di stradine che s'intrecciano, scendono, salgono sulle montagne. L'andatura del compagno pellegrino Francesco è ad elastico: si avvantaggia, si ferma, perde terreno, recupera.
Ad ogni rinnovo di contatto con noi compagni di cammino porta informazioni sui pellegrini con i quali si è trovato spalla a spalla nel suo frenetico andare: tedeschi , olandesi, spagnoli, peruviani, della nuova Zelanda, in particolare un seminarista ungherese che per suo compiacimento gli ha descritto l'origine della Santa Casa di Loreto, ma soprattutto si sofferma con coreani di Seul che lo informano sulla presenza di una ampia comunità cristiana in Corea unitamente alla notorietà in patria del cammino di Santiago. Raggiunta la fontana d'acqua del passo pirenaico all'ingresso del territorio della Navarra, Francesco ci presenta questi suoi ormai amici coreani, in particolare l'ingegnere informatico che si è preso un anno sabbatico. La padronanza delle lingue di Francesco è ormai totale.
Lo Spirito Santo scese sugli apostoli e così, nella loro successiva predicazione, tutti quelli che li ascoltavano, pur di idiomi diversi, comprendevano le parole nella propria lingua d'origine. Ebbene Francesco non ha bisogno di questo miracolo, parla contemporaneamente negli idiomi di chi ascolta, l'unico dubbio è sulla comprensione degli ascoltatori ed anche della sua su ciò che sta dicendo.

 

Un viaggio indietro nel tempo per tornare al momento in cui, nel percorrere in quota un tratto scoperto spazzato dal vento, io e Orlando affianchiamo una ragazza , non slanciata, che a corti passi avanza tranquilla senza mostrare significativo affaticamento. Chiede l'ora e poi, passo dopo passo, parola dopo parola, scopriamo che abita in un bel paesino vicino Bergamo e studia Psicologia a Padova. Da sola ha intrappreso questo cammino da compiere fino in fondo disponendo di tutto il tempo necessario prima della ripresa dei suoi studi nel mese di settembre. Dopo circa un km si ferma, nonostante l'assenza di ripari dal vento, per mangiare qualcosa, anche se a vista non è in difetto di risorse fisiche. Scopriamo che è lei la ragazza conosciuta dal ravennate, frequentano lo stesso corso di laurea a Padova ma non si conoscevano fino a ieri.
Ritornando alla cronologia temporale ecco il bello della casualità. Giunti all'inizio della ripida discesa che ha nel suo mirino Roncisvalle rincontriamo la ragazzotta che si unisce a noi per quest'ultimo tratto di cammino, è stato logico chiederle “come ti chiami?” Elide è il mio nome! Sono quasi le 15.00, siamo ai piedi della grande collegiata di Roncisvalle con l'ostello ubicato al suo interno, meta della maggioranza dei pellegrini di questa impegnativa tappa. Con dispiacere salutiamo Elide ed i Coreani dovendo noi percorrere altri sette km prima della sosta giornaliera. Con simpatia uno dei coreani mima il telefono con la mano e sorridendo esclama: “No Alpitur! No Alpitur!”. Francesco saluta in particolare il seminarista ungherese che lo ha ulteriormente gratificato dicendogli che parla bene l'inglese; ora è il tempo per il nostro pellegrino poliglotta di eseguire un reset linguistico per una totale apertura allo spagnolo.
Ormai, al termine di questa faticosa e fascinosa tappa è più che banale fare una riflessione veritiera su questo popolo in cammino, unito dalla comune fatica, avente come scopo comune il raggiungimento della meta e rimanere sempre stupiti dalla presenza di molte ragazze che non mostrano nessuna titubanza nell'affrontare, spesso in solitaria, il duro viaggio. L'avvincente giornata è alle spalle, domani “è un'altra tappa!”.